And then there were three. Come noto da tempo David Jackson ha litigato con Peter Hammill e ha lasciato il gruppo che per tutta risposta ha messo in cantiere in nuovo disco in studio. In tre. Eccolo.
Dialogando tempo fa in un forum della periferia dell’impero avevo espresso molte perplessità, non tanto per l’assenza di Jackson in sé, ma per l’assenza di una voce strumentale solista in concordanza di fase con le tastiere di Hugh Banton. Troppo debole il chitarrismo di Hammill. Pensavo che  non sarebbero riusciti a fare quadrare il cerchio. Pensavo ad un’anatra zoppa.
Adesso ecco “Trisector”. Devo dire che dopo l’attesa del disco del ritorno (“Present”), che tra l’altro sembra sia piaciuto a pochi oltre al sottoscritto, l’attesa di un nuovo disco dei VDGG ha lasciato freddi anche gli appassionati e anch’io non ho avuto tuffi al cuore. Poi il diavolo è nei dettagli, manca il cappellaio matto del logo Charisma. In “Present” c’era. Comunque il cd è qui, e sono qui anch’io. Non scrivo recensioni da qualche anno ma avevo chiuso con i VDGG, (“Present”, appunto), perché non riprendere da loro? E poi non credo che ci sarà da accapigliarsi per recensirlo. Sono disabituato. Manca fluidità e poi sono al quinto ascolto e non ho le idee chiare. Ma chi me l’ha fatto fare? Ma ormai ho preso l’impegno, vediamo di andare avanti.
Certo non è che l’iniziale “Hurlyburly” mi spinga a chissà quale imperiosa dialettica, uno strumentale alla fine piacevole ma inconcludente con Hammill che fa quel che può con il riff alla chitarra, l’organo che apre nelle retrovie e Evans che cementa il tutto. Sembra una prova in studio dei Deep Purple sotto sedativo. Più interessante “Interference patterns”, primo brano cantato, minimalismo tastieristico, momenti paranoidei e fin troppo contorti di cui è disseminata la discografia del gruppo e dell’Hammill solista, buono l’arrangiamento e l’intensità.
“The final reel” introduce un leit motif del disco, un romanticismo esistenzialista in sé oscuro ma non scevro di una dolcezza quasi tranquillizzante che farà capolino diverse volte nell’ascolto. Introduzione al piano (vero, non l’orrido piano elettrico) brano in crescendo, non irresistibile la linea melodica, organo old fashion come non mai che tiene in piedi il tutto, Evans che spatola nelle retrovie. La successiva “Lifetime” è sulla stessa falsariga, direi quasi romantica, niente di irraggiungibile ma un’atmosfera notturna e tenue, appena screziata da ombre, molto buono il cantato di Hammill, come non sentivo da tempo.
“Drop dead” sembra la versione cantata di “Hurlyburly”, inconsistente se non per un discreto tiro. Certo che parlare di tiro (Cristo ma come parlo! A 42 anni non si devono usare termini da sedicenne) per un brano dei VDGG è come parlare del decolté di Madame Curie. Forse il nadir del disco. Molto meglio allora “Only a whisper” con il suo svanire apparentemente senza fine, con la sua tendenza all’evanescenza, al sussurrare, al levare, al confondersi in una notte inquieta. “All that before” ritorna dalle parti di “Drop dead” con una muscolarità esuberante appena smussata da un bel lavoro quanto convenzionale di Banton all’organo. Hammill purtroppo suona la chitarra. Ed ecco che arriviamo al cuore, il brano più atteso, la mini suite ( 12′ 26″) “Over the hill”. Nessun appassionato di progressive resiste alla suite. Già al solo sentire la parola si apre il cuore e si drizzano le orecchie. La suite è il nostro Totem, il Logos, la Mamma. Si narra di progsters con visioni crepuscolari e apertura di stimmate al solo pensiero di un brano sopra i 10′. Io non faccio eccezione e non mi sottraggo all’obbligo di considerare “Over the hill” il brano migliore del disco (con “Only a whisper”), brano contorto, a struttura circolare, ipersaturo di musica e patos, con aperture alla “Childhood faith in childhood end” (dall’album “Still life”) e una parte centrale alla “Lemmings” (album “Pawn hearts”, sigh…) , tanto per gradire. Il disco potrebbe anche finire qui e invece si chiude con “(We are) not here”, brano in sé trascurabile se non per il fatto che riprende un po’ nel giro di tastiere e nel cantato slabbrato un’estetica new wave che i VDGG avevano anticipato in tempi remoti. New wave ? Raddrizzate quella faccia, i VDGG come anticipatori della New wave era un topos della mia passata e breve carriera di critico musicale improvvisato ma pieno di buona volontà.
Che dire…
Rispetto al precedente migliore produzione, migliore registrazione, migliore anche l’esecuzione, appare pure in qualche modo un album più completo, definito. L’assenza di Jackson francamente si avverte poco, si è ben giocato sugli arrangiamenti e Banton all’organo ha fatto un bel lavoro, per quanto estremamente old fashion, tanto che il suono dell’organo ricorda addirittura più un periodo proto-progressive che progressive vero e proprio. E allora? E allora ci sono alcuni pezzi deboli, inconsistenti, un po’ impersonali, b-sides del periodo che conta, e a volte manca fuoco, delirio dell’esistenza, sturm und drang, impennate memorabili, linee melodiche e soluzioni strumentali che non siano sbiadite. E poi manca il logo Charisma.
Ma suvvia, non esageriamo con l’iperealismo e  Dio salvi i VDGG che ci regalano ancora un paio di brani degni del loro passato immenso e ancora qualche suggestione. Suggestioni che ci portano a scrivere ancora di loro e ad alambiccarsi a che voto dare…
6 ½  + ½ punto in più, da fan…
7.

Doktor Kiusi

   

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