Ed eccoci a parlare di un gruppo che nel momento d’oro degli anni sessanta non ebbe i giusti riconoscimenti a dispetto della loro bravura. Sicuramente una band di culto che oggi è dimenticata dai più. I Pretty Things, gruppo inglese originario del Kent ,attivo dalla metà degli anni sessanta inizialmente con una miscela di rock ed errebì equiparabile ai primi Moody Blues, agli Animals ma anche ai Them (e soprattutto ai Rolling Stones, in quanto Dick Taylor, insieme a Jagger e Richards, fu il primo chitarrista di una band chiamata Little Boy Blue and the Blue Boys, che con l’ingresso di Brian Jones sarebbero diventati appunto gli Stones, mentre Taylor insieme a Phil May avrebbe fondato i Pretty Things). In seguito inserirono nel proprio repertorio elementi psichedelici, presenti nel loro capolavoro “S.F. Sorrow”, unico album ad entrare nella top ten, ma non abbandonando in alcun modo la loro passione per il blues e per Bo Diddley in particolare. Si sciolsero all’inizio degli eighties e si riformarono alla fine degli anni novanta. Da quel momento continuarono imperterriti a suonare fino alla sera del 13 dicembre del 2018 in cui si è assistito all’   ultimo giro di giostra per i Pretty Things. Phil May, cantante da sempre nonché leader, insieme al chitarrista Dick Taylor, della longeva formazione inglese, ha lasciato la porta aperta alla possibilità che la storia del gruppo abbia un seguito, magari solo discografico con un ultimo album in studio, o anche con la partecipazione a qualche sporadico concerto per occasioni speciali. Quello che è certo è che con la data del 13 dicembre 2018 scorso, tenutosi alla Indigo O2 di Londra, si è messa la parola fine a una vita passata per lo più on the road. Basta con i tour. Gli anni si fanno inevitabilmente sentire e dopo il ricovero d’urgenza per problemi respiratori di fine 2017, il cantante ha capito che era arrivata l’ora di mettere un freno a un certo stile di vita.
Per l’occasione la band ha pensato bene di chiamare a raccolta alcuni amici di vecchia data, studiando un programma molto allettante, diviso in tre parti, tanto che è stato raggiunto il sold out in prevendita. La serata è stata presentata da Mark St. John (ha dato forfait per impegni cinematografici, invece, l’annunciato attore inglese Bill Nighy, noto proprio per la parte della vecchia rock star in declino interpretata in film come “Almost Famous” e “Love Actually” e del dj in “I Love Radio Rock”). Mark St. John è comunque uno storico fan e collaboratore, oltreché motore e motivatore della reunion della band di fine anni ’90.
Ora quel concerto è stato pubblicato e la serata documentata in uno splendido cofanetto contenente 2 CD altrettanti DVD e un vinile 10”, per una esibizione che offre il meglio del loro repertorio. La formazione vede coinvolti, oltre ai tre più attempati membri, gli storici May e Taylor, a cui da decenni si è aggiunto in pianta stabile il secondo chitarrista Frank Holland, la giovane sezione ritmica composta da George Woosey (basso e seconda voce) e Jack Greenwood (batteria), che ha garantito negli ultimi anni la necessaria iniezione di energia. I nostri suonano con grinta e passione, passano in rassegna un repertorio che spazia dal R’n’R al blues con qualche momento dai profumi psichedelici, nel momento in cui lo show omaggia “S.F. Sorrow”. L’inizio dello show è affidato a loro due pezzi classici e noti quali “Honey i need” e “Don’t bring me down”, l’adrenalina sale subito di livello e Taylor ci mostra la sua abilità alla sei corde. Segue la ritmata e nera “Buzz the jerk” che introduce il primo momento dedicato a Diddley cioè “Mama keep your big mouth shut” in una resa a metà tra R’nB e rock. Non mancano perle freak beat come “Defecting Gray”, connotata da un alto tasso lisergico. La voce del cantante è in buona forma, forse anche migliore rispetto agli ultimi anni precedenti al ricovero forzato e, se anche la band non può più viaggiare a pieni giri come negli anni d’oro, è sempre un bel sentire.
Dopo la prima pausa i nostri tornano sulla scena accompagnati da una nutrita compagnia di ex-membri della fase più amata della storia del gruppo tra il 1968 e il 1970, quella compresa tra gli album “S. F. Sorrows” e il successivo “Parachute”: Skip Alan, John Povey e Wally Waller. È palpabile il piacere della rimpatriata tra vecchi amici. Le sorprese continuano, ecco salire sul palco David Gilmour, che non ruba la scena ai protagonisti, ma si fa sentire alla chitarra in pezzi tra rock e psichedelia quali “She says good morning, “Baron Saturday”, “Trust” e “I see you” per concludere la seconda parte con la lunga “Cries from the midnight circus” momento di rock chitarristico dei migliori in cui il buon David si prende la scena per la gioia dei fans con la maglietta dei Pink Floyd indossate dai presenti, da cui si capisce che più di uno è in effetti accorso all’O2 proprio per lui. Il concerto ha raggiunto il culmine e dopo una nuova pausa è la volta di un più rilassato set semi-acustico. Si inizia con due riletture di tutto rispetto di “Can’t be satisfied” e Come on in my kitchen”, con Dick ottimo alla slide. Sono due canzoni che fanno da preludio all’ingresso di un’altra sorpresa, l’arrivo dell’”Irish cowboy” Van Morrison, il quale si presta a fare sfoggio della sua vocalità inimitabile in ben tre pezzi, come “Baby Please Don’t Go” (primo hit proprio dei Them), “I can tell me” e “You can’t judge a book by its cover”.
Siamo ormai al termine della serata, c’è il tempo per riascoltare due splendidi momenti rappresentati da “Mona” e dal medley “L.S.D./Old man going” della durata di tredici minuiti ciascuna, che rappresentano il degno saluto dei Pretty Things al loro pubblico. Non mancano un paio di bis, “Rosalyn” loro primo singolo ed una emozionante e sentita “Loneliest person” che chiudeva “S.F. sorrow” e quella sera la loro carriera concertistica.
Non ho avuto il tempo di ascoltarlo lo scorso autunno, al momento dell’uscita, ma questo album dal vivo mi ha emozionato profondamente, forse perché ho sempre avuto una predilezione per i gruppi minori!!!


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