STEPHEN MICUS – ‘Winter’s End’ cover albumStephan Micus ha inventato quello che potrebbe essere il suo miglior lavoro di sempre. Ascolta musica da tutto il mondo, identifica suoni rari che colpiscono la sua fantasia, scopre quale strumento ha prodotto quei suoni, quindi impara a suonarlo immergendosi nella cultura dello stesso e dei migliori professionisti a cui può accedere per insegnargli. Prima o poi, lo strumento diventerà probabilmente uno dei ‘protagonisti’ del suo prossimo progetto.

Ci sono 11 strumenti da 10 paesi su “Winter’s End”, il 24° album solista che Micus ha pubblicato su ECM dal 1977. L’attore principale qui è il chikulo, un oggetto simile a uno xilofono dal Mozambico, con grandi risonatori di zucca appesi sotto i suoi tasti di legno. Troppo ingombrante per essere impiegato molto e difficile da padroneggiare (Stephan si è limitato alla versione a quattro note del basso), l’inconfondibile presenza del chikulo abbellisce sette della dozzina di canzoni originali dell’album. Un altro strumento che Micus ha registrato per la prima volta è un tongue drum che ha costruito 40 anni fa, realizzato intagliando una scatola di legno, come replica di quelli usati in Centrafrica. In “The Longing of the Migrant Birds”, sovrappone la risonanza percussiva di tre tamburi linguistici e due passaggi di chikulo insieme a 14 tracce vocali cantate in una lingua inventata, creando una fusione seducente che è allo stesso tempo terrena ed eterea.

Come molti album del nostro, “Winter’s End” ha un arco epico nella sua struttura. Così, “Autumn Hymn” e “Winter Hymn” chiudono il programma, e le canzoni due e 11, “Walking in Snow” e “Walking in Sand”, contengono entrambe uno squisito senso di spazio punteggiato da una solitaria chitarra a 12 corde. Tra queste passeggiate ci sono una “Baobab dance” di quattro kalimba, chikulo e sinding (un’arpa gambiana); le “Southern Stars” di quattro charango (uno strumento a corde peruviano), cinque suling (un flauto balinese), un sinding e due flauti nay egiziani; e altre destinazioni e attività impressionistiche.

Immergersi nella Musica di Stephan è un’esperienza unica, un viaggio dentro un universo sonoro fittizio che non ha corrispondenza nella realtà, ma è una creazione originale del musicista. Il suo non è infatti un approccio filologico alle musiche e cultura (che peraltro ha studiato e conosce molto bene) espresso attraverso l’utilizzo tradizionale di strumenti etnici, ma una sintesi personale e originale del loro incontro, anche con abbinamenti del tutto inediti tra gli strumenti suonati spesso con tecniche non ortodosse. La sua è una World Music assolutamente pura, nell’accezione più sincera e autentica del termine, e non senza un importante risvolto spirituale.

Che alcuni chiamino ciò che fa Micus musica New Age è ironico, riduttivo e assolutamente fuorviante!!!


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