Robbie Robertson è un signore di 76 anni che ha fatto parte di una delle migliori formazioni di rock di sempre, The Band, gruppo capace di scrivere pagine indimenticabili di musica americana tout court pur essendo per 4/5 canadesi. Il gruppo si sciolse nel 1976 e il loro concerto di addio venne immortalato da Martin Scorsese in quello che possiamo considerare il primo film documentario sulla musica rock, il celeberrimo “The Last Waltz”, concerto a cui partecipò la crema dei musicisti del tempo cioè Bob Dylan, Van Morrison, Muddy Waters, Joni Mitchell, Neil Young, Dr. John e tanti altri.
Robbie si prese del tempo, e dopo un silenzio lungo quasi una decina di anni, annuncia, nel 1987, l’uscita del suo primo, eponimo, album solista. Una carriera solista che ora, a distanza di oltre trenta anni, si può affermare sia stata piuttosto avara di pubblicazioni. Sette album in tutto, un paio dei quali, tra l’altro, collegati a progetti collaterali legati a quella che viene definita world music, quali possono essere il commento sonoro a un documentario televisivo dedicato ai nativi americani – tema che Robertson ha particolarmente a cuore essendo figlio di madre indiana Mohawk – oppure legati alla cultura degli aborigeni canadesi. Seppur le sette note abbiano chiaramente centralità negli interessi del musicista nato a Toronto, anche il cinema ha assorbito buona parte delle sue energie, sia come compositore che, in misura minore, nel ruolo di attore.
Ho letto da qualche parte che ogni uscita di Robertson sarebbe un evento, ma credo che siano ormai pochissimi gli ascoltatori che attendano con impazienza un nuovo lavoro del chitarrista. Non sicuramente gli appassionati del suo vecchio gruppo che vedono le sonorità dei suoi dischi come un qualcosa di modernista, infarcito di elettronica, che non risulta appetibile né affascinante all’ascolto, ma neppure coloro sempre alla ricerca di novità in campo musicale si dimostrano interessati ai suoi prodotti. Rimangono solo quelli che non si fanno pregiudizi a priori, ma valutano dopo l’ascolto.
“Sinematic” è, come si suole dire, l’ideale seguito di “How to Become Clairvoyant”. L’atmosfera, il mood introspettivo e, a volte, permeato di oscurità è infatti il medesimo. A ciò contribuisce in buona misura il cantato di Robertson che spesso assomiglia più a un parlato, così da aggiungere ulteriore profondità alle parole e alla musica. È evidente come il contatto continuo con il mondo del cinema abbia influenzato il suo modo di comporre. “Sinematic” è stato realizzato mentre il nostro era alle prese con la colonna sonora di “The irishman” e con la pubblicazione del documentario “Once Were Brothers: Robbie Robertson and The Band”, basato sulla sua autobiografia pubblicata nel 2016, “Testimony”. Il disco vede la partecipazione di parecchi ospiti quali Van Morrison, Glen Hansard, Derek Trucks, Doyle Bramhall II e Jim Keltner.
A mio giudizio si tratta di un bel lavoro, basato più sui suoni che non sulla scrittura anche se di canzoni valide se ne ascoltano diverse. Credo altresì che non farà proseliti perché ormai i media lo hanno bollato come “classic” e come tale ormai è buono solo per occupare i libri classici della storia del rock. Peccato, meritava ben altra sorte!!!


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