Per il terzo volume della sua serie “Landwerk”, il chitarrista e archivista Nathan Salsburg isola di nuovo frammenti di registrazioni d’archivio per formare loop su cui sovrappone chitarra elettrica minimalista e, in modo meno evidente, chitarra risonante, pianoforte e/o organo. Il gemito statico di un organo o il belato di un clarinetto insieme alla stessa elettricità statica servono quindi come metà di una conversazione attraverso più di un secolo di tecnologia del suono. L’effetto è simile al drone, con le linee di chitarra scarne e scheletriche che di solito riconoscono la ripetizione dei loop senza necessariamente ripetersi.
Come nei primi due volumi della serie, i brani durano circa dieci minuti ciascuno e sono intitolati solo con numeri romani sequenziali che riflettono la continuità dell’opera (finora, almeno) in tre parti, numerate X-XIV. A volte, come in “X”, la melodia della sei corde prende spunto dal sample, in questo caso unendosi ad esso in una marcia festosa. In altri brani, come “XII”, il vortice del disco a 78 giri suggerisce forse un ritmo.
Il confronto con le registrazioni originali è rivelatore. Così, in “XI”, un gruppo ripetuto di sette note cadenzate dal pianoforte di Sylvia Schwartz, che accompagna il klezmer di suo padre Abe su una registrazione del 1920, e la statica in cui sono incorporate forniscono una matrice per gruppi esitanti di riverbero di note in cui occasionalmente si intromettono toni di violino singoli e allungati. Il risultato, come la melodia tradizionale, non sembra né minore né maggiore; il ritmo è glaciale, ma i dieci minuti passano comunque veloci nello stato di trance che il brano induce.
Ci sono numerosi piccoli dettagli che danno alle composizioni un senso di movimento in avanti. Accordi di pianoforte spogli ed isolati emergono intorno al terzo minuto per condividere lo spazio con la chitarra in “XI”, ad esempio, mentre in “XIV” un organo prende il posto della sei corde tra il quarto e sesto minuto circa prima di ritirarsi in sottofondo. In “XIII”, guidata da un campione di un’orchestra klezmer, la chitarra inizia con gli accordi, passa a sequenze di note singole, riprende brevemente il tempo nei minuti finali e ritorna agli accordi alla fine.
L’uso di artefatti sonori nella musica per chitarra è condiviso, ad esempio, con Daniel Bachman (come ho osservato in una recente recensione del suo “Almanac Behind for Dusted”) e risale almeno al quarto disco di John Fahey. Nel caso di Salsburg, il rumore gioca più un ruolo elementare che narrativo, creando, insieme ai loop, l’architettura del suono.
“Landwerk No. 3” è, come i suoi predecessori, un’opera di bellezza scoscesa che rende omaggio ad un mondo – quello degli ebrei europei prebellici – distrutto dalla stessa ondata di tecnologia e cambiamento sociale che ha reso possibile la conservazione delle sue tracce nelle registrazioni d’archivio e, a sua volta, ha reso le stesse obsolete. È facile immaginare che Sylvia e Abe Schwartz, se in qualche modo riuscissero a sentire “XI”, si meraviglierebbero e approverebbero!!!
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