Era il maggio del 1992, avevo aperto il negozio da sei mesi ed era una vera sofferenza riuscire ad arrivare a sera… clienti pochi, posizione fuori mano e scarsa propensione della gente di Parma alla musica. Esce ‘Kiko’ dei Los Lobos e per me è un evento. I Lupacchiotti non avevano mai tradito le mie attese né su disco né in concerto. Inserisco il dischetto nel lettore e rimango sconvolto, ma negativamente. Mi aspettavo un succoso misto di roots rock, sonorità tex-mex e folk, potevo anche considerare la produzione di Mitchell Froom che avevo apprezzato con il disco precedente ‘The Neighborhood’, con i suoi suoni secchi e metallici ma non mi aspettavo affatto quello che avevo appena ascoltato. Eppure non mi arresi al primo ascolto, ricordo di averlo riproposto alle mie orecchie una trentina di volte nei successivi due mesi. Entrai poco per volta nei suoi suoni e nelle sperimentazioni proposte. Mi sovvennero le partecipazioni di Hidalgo ai dischi di Tom Waits. Arrivai alla conclusione che si trattava di un capolavoro, uno dei migliori dischi di musica rock mai usciti, e lo considero un punto d’arrivo per i ragazzi di East L.A., che non riusciranno più a raggiungere tali vette. Lo spettro sonoro della band si era dilatato a dismisura, si percepiva una precisione di suono mostruosa senza cadere in puro tecnicismo. Un album che una volta entrato in circolo non ne esce più, diventa come una seconda pelle. Sedici sono i brani che lo compongono e che giungono ai nostri sensi con un suono irripetibile. ‘Kiko And The Lavender Moon’ ha orchestrazioni fiatistiche quasi swing Anni Trenta che si compenetrano in una fisarmonica tex-mex il cui risultato non è passatista ma rivolto al futuro. ‘Saint Behind The Glass’ è lavorata su un banjo in stile messicano con contrappunti vocali quasi psichedelici. ‘Angels With Dirty Faces’ presenta un sitar a guidare un brano hip hop ipnotico in cui i suoni elettronici in sottofondo danno alla voce un tono allucinato ed onirico. ‘That Train Don’t Stop Here’ unisce un classico rhythm’n’blues alla voce filtrata. Il lavoro si chiude con un pezzo strepitoso, ‘Rio De Tenampa’, cantata in spagnolo che crea un’atmosfera da festa paesana a cui s’aggiunge a tratti una chitarra elettrica di matrice blues. Presi singolarmente gli elementi sonori utilizzati sembrano scollegati fra loro, ma nelle mani di Hidalgo e soci danno vita ad un suono affascinante e caldo che ci trasporta in paesaggi inesplorati di grande fascino. Fatelo vostro se non lo conoscete oppure riascoltatelo e ne rimarrete ancora estasiati.

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