Il gruppo folk irlandese Lankum è tornato.
Lo straordinario disco rivoluzionario della band, “The Livelong Day”, ha avuto un profondo impatto nel 2019, l’emozione bruciante delle esibizioni abbinata ad una tecnica di produzione senza fronzoli che ha davvero lasciato respirare le canzoni. Ottenendo enormi consensi, incluso l’RTE Choice Music Prize di quell’anno, Lankum ha quindi iniziato a creare un seguito.
Quindi, una buona notizia: l’attesa è finita. Il nuovo rilascio, “False Lankum”, è arrivato il 24 marzo promosso da Rough Trade Records, e la loro uscita nel Regno Unito a maggio è completamente esaurita. La richiesta è così grande, infatti, che il gruppo suonerà alla storica Roundhouse di Londra il 13 dicembre.
Il lavoro è guidato dalla versione di “Go Dig My Grave”, una canzone scoperta da Radie Peat della band e informata dall’onnipotente performance della canzone di Jean Ritchie, registrata nel 1962.
È una registrazione di sangue e budella, che conserva il pugno emotivo che ha reso il lavoro precedente di Lankum così avvincente. ‘La nostra interpretazione della canzone tradizionale “Go Dig My Grave” è incentrata sull’emozione del dolore: divorante, insopportabile e assoluto…’.
‘Una reazione fisica viscerale a qualcosa che il corpo e la mente sono quasi incapaci di elaborare. La seconda parte della traccia è ispirata alla tradizione irlandese del canto (dall’irlandese caoineadh), una forma tradizionale di lamento per i defunti’. Considerata da alcuni come l’apertura di ‘pericolosi canali di comunicazione con i morti’, la pratica è stata oggetto di una severa censura da parte della chiesa cattolica in Irlanda dal XVII secolo in poi.
L’opera nasce guardando l’oceano. E si percepisce chiaramente attraverso il flusso continuo di suoni che classificheremo folk solo per comodità e strumentazione, ma potremmo tirare in ballo anche ‘avanguardia’ oppure ‘sperimentazione’.
I brani iniziano come ballate folk (dieci traditionals e due a firma del gruppo), ma il punto di arrivo sono luoghi deformi le cui sonorità si distaccano prepotentemente dal genere suddetto. Il legame con la tradizione è ben evidente nelle classiche jig, reels e ballads di matrice irlandese, ma la plasmano a proprio piacimento attraverso tempi che sono estranei alla purezza del folk.
“Master Crowley’s” sembrerebbe un pezzo da ascoltare nei classici Irish Pub, ma poi ti conduce in posti strani, quasi demoniaci, con loop metallici e sinistri in cui la melodia è solo un lontano ricordo.
Il gruppo usa una strumentazione acustica, corde pizzicate, piano, violino, cornamusa, dulcimer, organo, ma la produzione aggiunge ritmi e loop nascosti che rendono il tutto oscuro. Le voci sono una cantilena come il folk ci ha insegnato e non sembrano risentire dei suoni di contorno.
Un lavoro che ci apre orizzonti infiniti se si ha la pazienza di seguirli tutti, ma rimane un disco da assaporare nota dopo nota perché veramente di livello superiore!!!
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