Ci vuole spavalderia per aprire un album con un brano che sembra un fratello stretto di una classica canzone pop sinfonica di tutti i tempi, “I Saw The Light”. Con la sua linea di pianoforte che riecheggia la melodia di Todd Rundgren, indulgendo in jig con doppi sax, un tuffo brillante mentre la maggior parte della strumentazione si interrompe temporaneamente lasciando un pianoforte solitario e H Hawkline (Huw Evans) che canta “e mi manchi’, la title track è un atto difficile da seguire. Tuttavia, con il suo terzo disco, “Milk For Flowers”, Evans rivela una nuova fiducia, svelando un lavoro stracolmo di brani immediatamente attraenti ed emotivamente coinvolgenti, dieci singoli già pronti.
I suoi LP precedenti sono stati visti come oggetti d’arte dadaisti con un significato offuscato dall’assurdo, ma la produttrice Cate Le Bon ha creato un ricco arazzo emotivo per questo rilascio. Huw è affiancato da un fantastico team di collaboratori, tra cui Paul Jones del duo strumentale minimalista Group Listening al piano, Stephen Black (Sweet Baboo e Group Listening) e Euan Hinshelwood (Younghusband) ai sassofoni, Harry Bohay (Aldous Harding) che fornisce pedal steel, Tim Presley (White Fence, Drinks) alla chitarra e Davey Newington (Boy Azooga) alla batteria.
La seconda traccia, “Plastic Man”, vede un’ulteriore fortuita immersione nel classico ‘songbook’, il piano di Jones che ricorda Madness nel punto in cui le vorticose melodie di Mike Barson avevano preso il sopravvento, mentre Evans, suonando diffidente, rivela ‘Non posso sopportare la tensione’. Il disco oscilla tra queste affermazioni più emotive e immagini astratte, quindi “Suppression Street” con i suoi accenni alla delicata psichedelia in stile Gorky lo fa ‘sorridere come un ascensore affollato’ prima di essere portato via dal sax struggente, sognante ed elegante. Intanto “Denver”, parte con un metronomo minimale che si apre come un fiore estivo nel suo ritornello celebrando ‘un amore che non diventa mai troppo’, segno di ulteriore vulnerabilità. La splendida, fragile ballata, “Like You Do” con il pianoforte di Jones come protagonista di un firmamento caleidoscopico, ha il nostro che canta ‘I can’t take it like you do’, un momento per chiudere gli occhi e svenire.
Per stessa ammissione di Huw, nei lavori precedenti la sua tendenza ad oscurare ed evitare i sentimenti si rifletteva in uno stile vocale che mirava ad essere piatto e privo di emozioni. In “Milk For Flowers”, ha svelato una voce con una gamma impressionante. In “Mostly”, colpisce un dolce falsetto accompagnato da una languida linea di pianoforte, la chitarra di Presley ha un raro momento di preminenza mentre canalizza Steve Cropper e i fiati danno una sensazione di rilassata anima atlantica. Durante “It’s a Living”, la sua voce ricorda il connazionale di grande talento, Meilyr Jones, mentre produce alcune immagini e osservazioni sorprendenti in combinazione con tamburi incisivi e sax che suonano allegramente in accompagnamento.
“Athens at Night”, con la sua gelida linea di synth e la batteria elettronica, condivide la vena degli anni ’80 che Le Bon ha esplorato così proficuamente nel suo recente album “Pompeii”. Al contrario, la pedal steel di Harry Bohay conferisce a “I Need Him” una sfumatura country e gallese, mentre la melodia guidata dal pianoforte ha echi di Nilsson di prim’ordine. La chiusura, “Empty Room”, utilizza anche pedal steel insieme al piano da brivido di Jones, mentre i sax di Black e Hinshelwood si avvolgono comodamente attorno alla melodia, una traccia che riflette l’idea che ogni nota debba essere assaporata.
Disco di non facile ascolto perché il contenuto non è certo piacevole, eppure ne sono uscito con uno stato d’animo migliore!!!
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