Ripercorrendo a ritroso gli ultimi due anni, momento in cui ho intrapreso con piacere crescente l’attività di recensire dischi, mi sono reso conto con rammarico che non avevo mai parlato dei Grateful Dead. Analizzando i motivi ho capito che non lo avevo mai fatto per un misto tra paura e rispetto, forse non mi ritenevo all’altezza di parlare di un gruppo che ritengo uno dei più grandi di tutta la storia del rock, una formazione che si è sempre messa in discussione non adagiandosi mai su un’unica formula. Sento già arrivare le prime contestazioni sul fatto che i nostri non abbiano mai realizzato un disco di studio veramente all’altezza della fama che si erano creati on stage. Di rimando ricordo solamente “Workingman’s dead” e “American beauty” due album pieni zeppi di belle canzoni, poi i loro brani sono tutti a struttura aperta, adatti ad essere modificati durante le loro splendide esibizioni live. Hanno avuto un ruolo centrale nello sviluppo di due fenomeni: il nomadismo da un concerto all’altro dei loro fan (Deadhead) e la pubblicazione di una stupefacente serie di registrazioni dal vivo.
La loro discografia in studio si arrestò nel 1989 con la pubblicazione di “Built to last”. Come avrebbe potuto essere un nuovo album dei Grateful Dead, se la morte di Jerry Garcia non avesse interrotto bruscamente il loro ‘lungo e strano viaggio’ nell’agosto del 1995? “Ready Or Not” prova a rispondere a questa domanda assemblando nove brani mai incisi in studio dalla band californiana ma eseguiti dal vivo tra il 1992 e il ‘95: pezzi che, come sottolinea l’archivista della band David Lemieux che ha curato personalmente la selezione, ‘possono in gran parte stare accanto ad alcune delle canzoni più antiche e più amate dei Dead come autentici classici a dispetto della loro breve permanenza nel repertorio’.
I brani recano la firma di Garcia (quattro), tre di Vince Welnick e due di Bob Weir tutti accompagnati dalla presenza del liricista Robert Hunter.
“Liberty” sembra sia l’ultima traccia composta da Jerry e risulta una gran ballata in cui il riff del piano abbellisce l’andamento del canto. È una tipica canzone del chitarrista, caratterizzata dalla fluidità della melodia e da una timbrica avvolgente capace di entrare nei circuiti sensoriali dell’ascoltatore per non uscirne più. “Eternity” è stata composta da Weir e la si apprezza più la si ascolta con la particolarità di un uso delle tastiere alquanto originale.
Ancora Garcia sugli scudi con “Lazy river road” per una composizione che richiama il classico sound del “Morto Riconoscente”. La voce è sussurrata, il piano che mette in mostra una gran pulizia e il ritornello è di quelli che si insinuano sottopelle. Le cose cambiano in peggio per “Samba in the rain” a firma Welnick. È il suono a non convincere affatto soprattutto per demerito delle tastiere. Ci riprendiamo immediatamente con il terzo pezzo a firma Garcia-Hunter, cioè “So many roads”. Si muove lentamente attorno ad una solida struttura con uso articolato delle percussioni. Di classe l’assolo della sei corde nella parte centrale.
Anche il secondo brano di Weir dal titolo “Corrina” si pone ad alti livelli. Si tratta di una lunga ballata con le percussioni molto caratterizzanti, il cui sviluppo è quello di una jam session fluida e in grado di rapirci la mente.
In conclusione una raccolta che, forse, ci spiega come sarebbe stato il nuovo disco dei Dead, un lavoro sicuramente non perfetto, ma ancora in grado di offrire stimoli e spunti interessanti, con alcuni brani che avrebbero potuto entrare nei grandi classici di questa band straordinaria!!!


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