“Milkteeth” è il terzo album del songwriter inglese Douglas Dare, in arrivo il 21 febbraio 2020 su Erased Tapes. La produzione è di Mike Lindsay (Tunng, Lump), nel suo studio a Margate per soli dodici giorni di registrazioni. L’intimismo minimalista del lavoro, per un pop da camera in omaggio a tutti coloro che là fuori si sentono “diversi”, è sostenuto dall’abituale pianoforte, oltre che dalla chitarra e dall’autoharp, quest’ultima utilizzata per comporre il primo brano estratto “Silly Games”.
L’approccio di Douglas è molto particolare e suggestivo, fortemente emozionale e carico di sincerità, ma non lasciatevi ingannare dalle mie parole, perché il disco riesce ad essere estremamente comunicativo e, grazie a questa caratteristica, ne guadagna l’ascolto che si dimostra di facile assimilazione, oppure di eccellente orecchiabilità.
L’opera si apre con “I am free”, ballata spoglia composta per pianoforte e voce, possiede un’intensità da spingere alle lacrime. “The joy in Sarah’s eyes” potrebbe essere stata composta da Jeff Buckley se vivesse in questo momento storico, mostra arrangiamenti più variegati, ma non vien meno la capacità di emozionare.
“The playground” è una canzone che il nostro afferma di aver voluto sempre scrivere, su un desiderio di innocenza e semplicità infantile. Possiede una splendida progressione, partendo in modo scarno si muove verso un toccante crescendo di synth e piano, che mi porta a dire di essere al cospetto di un brano superlativo.
Mentre “Red Arrows” racconta una storia di vulnerabilità, in “Heavenly Bodies” c’è un’oscurità che non ha fretta di allontanarsi, accostando il tutto alle composizioni di Leonard Cohen, ed è anche la prima volta che Dare suona la chitarra su disco. Tra le varie canzoni si notano pezzi strumentali – “The Piano Room”, “The Stairwell”, “The Window” – così intitolate a causa dei luoghi in cui sono state registrate, momenti di quiete e riflessione.
Questa emotività così spinta porta a pensare ai primi lavori di Antony & The Johnsons, ma la scrittura si avvicina maggiormente a quei cantautori di inizio anni settanta in Inghilterra, il primo nome che mi sovviene è quello di Cat Stevens.
Le melodie su “Milkteeth” sono volutamente semplici; nonostante un romanticismo portato all’eccesso, non si vuole essere appariscenti ed eccessivi, perché il predominio stilistico è rappresentato dalla sincerità in grado di offrire al pubblico un’opera di bellezza accecante, un vero e proprio gioiello!!!


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