Il fatto che ‘The American Songster’ Dom Flemons , vincitore del Grammy Award, polistrumentista e musicologo registri su Smithsonian Folkways è una dichiarazione in sé sulla sua capacità di portare alla luce gemme culturali storiche dai generi country, western, blues e folk. È così che si è costruito la propria reputazione da quando ha lasciato i Carolina Chocolate Drops nel 2013. Sebbene non abbandoni quella ricerca, qui su “Traveling Wildfire”, per la prima volta si concentra principalmente sul proprio modo di scrivere canzoni. Accenna alla sua evoluzione spirituale e all’attuale clima sociale, anche se in modo molto sottile in termini di quest’ultimo. Più direttamente canta l’amore nero, la sopravvivenza, l’eredità e la crescita sia attraverso le proprie composizioni che la sua interpretazione dei brani popolari tradizionali. Anche se sembra ancora ossessionato dai ‘cowboy neri’, il titolo uscito nel 2018, questa volta lo fa in modo molto diverso. Basti dire che non hai mai sentito questo lato di Dom Flemons prima.
Prodotto da Ted Hutt (Old Crow Medicine, Lucero), presenta Dom su quindici strumenti diversi, alcuni dei quali realizzati su misura, insieme a Matt Pynn alla pedal steel e David Hidalgo dei Los Lobos alla batteria. I musicisti ospiti includono Sam Bush al violino, James Fearnley dei Pogues alla fisarmonica a piano e un duetto con Lashon Halley (co-cantante dei Dustbowl Revival).
Adotta un approccio piuttosto bipolare, con la prima metà una sorta di estensione del suo “Dom Flemons Presents Black Cowboys” con un mix di country western tradizionale e il suo stile di country cosmico. Qui sublima la propria versatilità strumentale al servizio delle canzoni. La seconda metà entra nella modalità folk blues, con una maggiore enfasi sui brani cover e la pennata stellare. L’intensità si sviluppa dai suoni sereni della prima metà, quasi come una conversazione intima nelle prime ore del mattino, alcuni dei quali diventano piuttosto oscuri e riflessivi, nello stile familiare della seconda, attingendo alla resilienza, alla speranza e all’umorismo, simulando il proprio viaggio personale.
Si apre con tre pezzi d’amore country originali, a cominciare da “Slow Dance With You” che tocca la passione e il romanticismo dei neri, un argomento che secondo il nostro è stato ignorato nella musica country. Per chi scrive, il suono si trova da qualche parte tra Charley Pride, Ray Price e forse anche “Nashville Skyline” di Dylan. “Dark Beauty” è particolarmente sognante mentre la straordinaria “If You Truly Love Me” è più ottimista. La title track è stata scritta mentre affrontava l’uragano Ida a Nashville e osservava le inondazioni di New Orleans e gli incendi a ovest. Questa melodia, e “It’s Cold Inside”, scritta dopo un infortunio che ha subito, sono sia ossessionanti che persino psichedelici in una vena country cosmica, non come Gram Parsons, ma quasi come Hank Williams in un viaggio acido. Dom canta dolcemente, ma l’atmosfera è giustamente inquietante.
Seguendo queste composizioni originali, alterna cover con le proprie, iniziando con una traccia appresa da una registrazione in prigione di Jimmie Strother, “We Are Almost Down the Shore”, resa in duetto con Lashon Halley. Si noti inoltre che Flemons includeva un opuscolo molto dettagliato sullo sfondo di ciascuno di questi brani. La storia di Strother, ad esempio, è piuttosto intrigante. “Nobody Wrote I Down”, originariamente scritto insieme a Carl Gustafson e Billy Branch, è uno dei due tagli country blues a tema western. Fa riferimento ai soldati Pony Express e Buffalo. Il secondo, del Rev. Gary Davis, è “Saddle It Around”, non con i tipici schemi di chitarra di Davis, che racconta la storia di un cowboy nero che viaggia lungo la strada e viene arrestato per nessun crimine.
Segue con tre delle sue ballate folk-blues (“Big Money Blues”, “Old Desert Road” e “Rabbit Foot Rag”) nello stile del Delta e Piedmont, rivolgendosi anche al lavoro di Eric Andersen (“Song to JCB”) e un’oscura melodia di Bob Dylan, “Guess I’m Doing Fine” resa in bluegrass con Sam Bush al violino. L’ex brano di Andersen appare anche in una versione più lunga che l’artista di colore ha registrato per il recente tributo in triplo CD ad Andersen, “Tribute to a Song Poet” (Y&T Music). La canzone racconta la storia di JC Burris, polistrumentista e nipote di Sonny Terry. In “Tough Luck” Flemons rende omaggio al banjo come strumento originale africano suonandone uno di zucca a cinque corde su misura e nello strumentale di chiusura celebrativo “Songster Revival” Dom su vari strumenti è affiancato da Tutt (chitarra), Marc Orell (bouzouki) e James Fearnley (fisarmonica a piano).
Dom Flemons intendeva presentare due aspetti del proprio attuale approccio alla musica. Tutto sommato, “Travelling Wildfire” è volutamente irregolare e sembra essere un disco di transizione o un ponte verso una nuova fase in cui l’ex CCD presenta più originali. Sia che continui a integrare questo approccio ‘vecchio e nuovo’ sia che decida di sorprenderci ancora, saremo più preparati la prossima volta!!!
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