A distanza di quasi quindici anni dalla pubblicazione del loro primo EP collaborativo “In The Reins”, Calexico e Iron&Wine tornano a suonare assieme e pubblicano un nuovo album, “Years To Burn”. Il disco è stato registrato a Nashville assieme al produttore Matt Ross-Spang nel corso di 5 giorni di session ai Sound Emporium, un iconico studio fondato negli anni ’60. Tra gli ospiti alcuni sodali del duo come Jacob Valenzuela (tromba), Paul Niehaus (peadal steel) Rob Burger (dell’Tin Hat Trio al piano) e Sebastian Steinberg (basso).
Nel campo musicale, quello delle collaborazioni è uno dei territori più delicati: occorre profondità di progetto e alta ispirazione da ambo le parti, più una certa dose di alchimia naturale e vicinanza di visione. Quella tra i Calexico e Iron&Wine prometteva bene, poiché sono in possesso di valori e caratteristiche che sembravano integrarsi a pennello.
Come detto all’inizio i nostri ci avevano già provato tre lustri fa, i risultati erano stati, secondo la critica, eccellenti oppure una parziale delusione. Il mio parere, per quello che può contare, è che si trattava di un discreto lavoro, ciò che mancava a “In the Reins” era la coesione, perché i brani migliori erano quelli in cui sembrava di ascoltare o solo i Calexico oppure Sam Beam in solitudine.
Da simili premesse non era scontato che la nuova fatica potesse funzionare laddove la precedente aveva fallito. Far coesistere le semplici melodie di Sam con il caleidoscopico suono del duo era la premessa per la riuscita dell’opera. In questa occasione c’è più coesione, si aprono orizzonti tipici di Burns e Convertino, melodie sospese di chiara derivazione Iron&Wine, ma il tutto diventa altro in un gioco camaleontico.
Quindici anni sono tanto tempo, le vite possono subire drastici mutamenti, ma tutto sfuma tra le delicate note di “What Heaven’s left”, tra morbide atmosfere e suoni accattivanti. Già con il successivo pezzo, “Midnight sun”, c’è un cambio di registro con cori in secondo piano ed una steel che scivola via. La levigatezza sparisce con “The bitter suite”, lunga, miscela di tex-mex-folk, con una distesa di trombe inquiete. Poi, a metà brano, cambio repentino verso forme più convenzionali che non perdono quel tono oscuro della prima parte.
Bravi, hanno saputo aspettare quando ritrovarsi per donare piacere all’ascoltatore!!!


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