Me le ricordo bene, quelle lunghe estati calde di fine anni ’70, c’erano un certo numero di band outré che potevano abbracciare senza sforzo il futuro mentre celebravano il passato. I Barracudas sembravano essere un ponte tra i volti freschi a strisce di caramella dei Beach Boys del 1962 con il rock brizzolato intriso di punk, se non dei Pistols o dei Clash, sicuramente dei Flamin’ Groovies. E per me andava bene. Surf punk a go go. Questo cofanetto cattura il loro primissimo vortice, dal 1977, con demo iniziali, prove, cover e nastri dal vivo, fino al loro primo disco LP, intitolato così com’è questo box, raccogliendo i singoli e gli scarti man mano che va. Termina nell’81. Quattro anni!
Mentre esiti, scopri qualche altro retroscena: il canadese Jeremy Gluck si era incontrato con Robin Wills a uno spettacolo a cui entrambi stavano partecipando a Londra. Legati dal loro amore sia per il surf che per la psichedelia, hanno fatto come tutti quelli che la pensavano allo stesso modo in quel giorno e hanno fondato una band. Era il 1977, ci volle un po’ di tempo per convincere i nativi della loro visione, con la coppia che prese il bassista, Nick Turner, e David Buckley, alla batteria, dopo una falsa partenza o due, lungo la strada. Tutti cantavano, naturalmente; Gluck la voce solista e Wills il re della chitarra surfpunk. Tutto questo viene spiegato, e molto altro ancora, nel libretto tipicamente sontuoso che Cherry Red conferisce a questo e a tutta la loro produzione ereditaria, in gran parte nelle stesse parole di Wills. Dopo l’81 il gruppo non si estinse, ma continuò, con varie formazioni, sciogliendosi e riformandosi, anzi un certo numero di volte, com’è d’uso.
Per essere onesti, è il primo disco che probabilmente otterrà più successo, compreso quel primo album, su cui sono taggate le 5 b-side dei singoli da esso, insieme ad alcune versioni alternative e demo. C’è anche una canzone altrimenti disponibile solo su “A Splash Of Colour”, un sampler della WEA. Quindi, più di quarant’anni dopo, era/è qualcosa di buono? Con la risposta definitiva, se compromessa, sì.
Con l’apertura, “I Can’t Pretend”, potrebbe quasi essere Eddie & the Hot Rods, un vivace thrash generico, non fino a quando, dopo, “We’re Living In Violent Times”, un sound Byrds, tutta tintinnante e falsa attitudine. Questa potrebbe essere una canzone di un decennio prima o, come testimoniano artisti del calibro di Ian M. Bailey, anche oggi. Finora pochi riferimenti espliciti al surf, mentre i proto-power pop si susseguono, uno dopo l’altro. Una fantastica cover di “Codeine” di Buffy St. Marie si erge sopra il parapetto, impostata sul ritmo traballante usato da, ancora una volta loro, i Byrds per “5D”. Un altro momento eccitante, la psichedelica “I Saw My Death In a Dream Last Night”, una traccia bella come il suo titolo, un organo che aggiunge consistenza. “Somewhere Outside”, che chiude quella laterale originale, è un altro gioioso galoppo a 12 corde, e ha la prima esplosione di baa-baa-baas nel ritornello. E non prima del tempo.
Puoi chiaramente presumere che la compilation “Nuggets” fosse da qualche parte a portata di mano per la realizzazione di questo. “California Lament” rivisita il libro di composizioni di Spector, rifacendosi al tempo in cui Brian Wilson si rese conto di cosa si potesse fare, aggiungendo parti vocali al modello di Chuck Berry. Una grande traccia mai ascoltata da me prima, e per la quale esistevano grandi speranze, “(I Wish It Were) 1965 Again” chiude l’LP vero e proprio. Ed è un bel titolo!
Il secondo disco contiene demo da parete a parete, alcune delle quali sarebbero apparse nel successivo secondo disco, “Mean Time”, con una nuova sezione ritmica ed entrambe le tastiere aggiuntive, Pete Gage, e la seconda chitarra di un autentico Flamin’ Groovie, Chris Wilson. Ma questo rivela il lavoro in corso con il quartetto originale. Immagino che il problema con i demo sia che sono proprio questo, raramente hanno la rifinitura di una registrazione in studio a contratto, ma molti di questi si migliorano bene e spiegano il continuo interesse che potrebbero attrarre dalle etichette discografiche, anche se poi raramente si materializzava molto oltre quell’interesse. “Don’t Let Go” è uno di questi esempi, molto più spigoloso della versione LP, così come l’apparizione del primo live preferito, “Tokyo Rose”. L’inizio di “His Last Summer”, asportato da gran parte del kitsch successivo, funziona in questo formato più lineare. È inclusa anche una bella gemma di “Little Red Book”, che mostra ancora una volta la loro conoscenza del songbook di Arthur Lee. (E come la maggior parte, scommetto, probabilmente all’oscuro del fatto che il vero scrittore sia il recentemente scomparso Burt Bacharach!). “Grammar Of Misery”, che, in “Mean Time”, è diventato uno dei preferiti dai fan, appare come una versione presentata a Roy Wood. È una canzoncina abbastanza solida e a regola d’arte. “Ballad Of A Liar”, anch’essa in “Mean Time” è formidabile, una miscela di Rickenbackers e un trascinante ritmo motorik. Così anche “Shades Of Today”, che potrebbe quasi essere un singolo degli Who del 1966 perduto, nella sua costruzione. Ci sono anche alcune versioni di canzoni trattenute per il terzo rilascio, “Endeavor To Pleasure”, in particolare “She Knows”, che, a questo punto, inizia con una versione distorta di “Satisfaction”, se interpretata dai Pretty Things. Il che non è una cattiva idea. Piuttosto più tastiere iniziano ad apparire per gli ultimi tagli, mentre vengono provati vari musicisti. “Inside Mind” beneficia bene dell’aggiunta e ha una sensazione beatamente lisergica. “Hear Me Calling” ha dei bei tocchi Farfisa che sollevano anche questo brano.
Il disco finale funge in gran parte da ricettacolo per qualsiasi altra stranezza che esiste su nastro. E anche se sembra dannoso, non è del tutto privo di valori. Uno di questi è l’interessante pezzo “I Want My Woody Back”, la prima registrazione in assoluto della band nascente, solo la seconda volta che Turner e Buckley erano stati in uno studio con Gluck e Mills. “Subway Surfin’”, del 1979, combina testi arricciati con una fusione niente male, come era nelle loro intenzioni, di Jan & Dean con le New York Dolls. Le altre tracce del 1979 sono più entusiaste di molto altro, lasciando cadere le influenze a destra a sinistra e al centro, “Rendezvous” è particolarmente simile a Ramones. Il tutto si chiude con una cover dal vivo di una canzone dei Flamin’ Groovies, “Slow Death”, un indicatore forse della loro direzione futura, ma, minacciosamente, la notte, la traccia e il momento in cui sono stati buttati fuori dalla EMI, per gentile concessione di alcuni dirigenti in visita, non impressionati dai commenti sull’etichetta, fatto dal palco. Autodistruzione in poco più di due minuti e mezzo.
Ma, per quanto tanti difetti e tutto il resto, questa è comunque una collezione degna, che mostra la promessa e il puro dannato entusiasmo di questi due ossessivi, appassionati di garage psichedelico, istruiti nel punk, attingendo a entrambi e realizzando il loro sogno, o certamente una versione di esso. ‘Ma non sai cantare’, ha detto la madre di Gluck dopo aver appreso i suoi piani. Qui ci rendiamo conto che poteva, e anche a volte lo faceva, con Wills che aveva il coraggio di dargli il materiale per arricciare quell’onda, essendo l’autore principale della stragrande maggioranza di questi brani, alcune co-scritti con Jeremy. Oltre a tirare fuori la chitarra appropriatamente primitiva con cui vestirli!!!
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