Il cantante / cantautore dei Dawes Taylor Goldsmith è di umore ansioso per il settimo album della band, il liricamente incisivo “Good Luck with whatever”. La band ha registrato il disco a Nashville con il produttore Dave Cobb, che ha diretto progetti per luminari di alt-country come Shooter Jennings, Sturgill Simpson e Jason Isbell. Porta calore tattile al disco, rafforzando le inclinazioni pop classiche del gruppo e senza mai intralciarli. Nell’album si ha la sensazione che i Dawes stiano consapevolmente individuando aspetti accuratamente selezionati delle loro influenze: il solo di chitarra fuzz-tone di Mark Ronson su “Good Luck with Whatever”, gli accenni di Paul Simon di “St. Augustine at Night”, e il modo in cui “None of My Business” sposa elegantemente “Born to Run” -era Bruce Springsteen con le band della fine degli anni ’60.
A questo punto è lecito porsi una domanda, ma i veri Dawes chi sono? Quello che era iniziato come un gruppo folk-rock competente è diventato troppo imbottito e irriconoscibile con il pugno uno-due di “We’re All Gonna Die” e “Passwords”. Le chitarre rasentavano lo stoner rock in “Living in the Future”, “Roll With the Punches” e “We’re All Gonna Die”; la produzione sembrava affrettata e non masterizzata e gli elementi sintetici esistenti persistevano e si alteravano in modo poco lusinghiero con il basso glitch di “Quitter”, le tastiere alla Foreigner di “Feed the Fire” e gli orribili schizzi sci-fi in “My Greatest Invention.
Il loro materiale era sempre ascoltabile grazie ai loro talenti e al frontman Taylor Goldsmith, che ha diviso la differenza tra Springsteen e Son Volt con vera angoscia e carisma sinceri. È un grande cantante che probabilmente un giorno avrà una spettacolare carriera da solista. Purtroppo, anche se il loro settimo e ultimo disco sia il loro migliore da “Stories Don’t End”, non è ancora il grande disco che sono chiaramente in grado di fare. Il termine di paragone che mi sembra più appropriato è con Bruce Hornsby se quest’ultimo possedesse un tiro rock maggiormente marcato. Siamo al cospetto di un ‘Heartland-rock’ con pianoforte in evidenza e le sei corde, acustiche ed elettriche, che ne accentuano il sapore. I semplici punti di riferimento degli anni ’80, specialmente nella struttura, si adattano bene ai Dawes, e il risultato è eclatante in un paio di canzoni spettacolari. “Between The Zero And The One” e “Free As We Wanna Be” hanno tonnellate di chitarra e piano drammatici, con un gancio di grande presa sulla prima e splendide armonie sulla seconda, e “None of My Business” si apre con un twang vibrante, un basso teso che sfocia in un coro impennato.
La forma lirica ripetitiva di “Still Feel Like A Kid” spegne leggermente gli ardori, ma funziona per una canzone di apertura e il ponte di una chitarra elettrica stridula e di pianoforti e organi abbaglianti, e il verso finale ‘I am a singer in a rock ‘n’ roll band / Cause I still feel like a kid’ spinge una presunzione, altrimenti familiare, in un punto culminante. È senza dubbio il disco più brillante e sfacciato che i nostri abbiano mai pubblicato; un loro disco rock più diretto sembra tanto più promettente dopo queste canzoni.
Non siamo ancora arrivati al disco della svolta, ma la conclusiva “Me Especially”, che richiama i momenti più pastorali di The Band che sanno incorniciare una certa elettricità, ci permette di essere fiduciosi per il futuro della formazione!!!
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