“The Consuming Flame: Open Exercises in Group Form” è il nuovo triplo album dei Matmos. Un lavoro che ha coinvolto 99 musicisti diversi, invitati a contribuire alla registrazione attraverso un’unica e sola istruzione: potevano suonare tutto ciò che volevano, purché il tempo ritmico di qualsiasi materiale fosse di 99 battiti al minuto.
Hanno risposto alla chiamata di M.C. Schmidt e Drew Daniel, vecchi collaboratori come J. Lesser, Jon “Wobbly” Leidecker, Mark Lightcap, Josh Quillen e Vicki Bennett, mentre molti altri sono stati raggiunti attraverso annunci aperti sui forum: da musicisti di conservatorio come Kate Soper, Bonnie Lander, a quelli dell’underground più estremo (Blake Harrison dei Pig Destroyer o Terence Hannum dei Locrian), fino a noiser (Twig Harper, Moth Cock, Bromp Treb, Id M Theft Able), scrittori (Douglas Rushkoff, Colin Dickey) e artisti concettuali (Heather Kapplow). Una lista infinita redatta democraticamente e senza alcun limite di genere, che spazia tra volti noti sia della musica elettronica (Jan St. Werner e Andi Toma dei Mouse on Mars, Daniel Lopatin, DeForrest Brown Jr., J. G. Thirlwell, Matthew Herbert, Rabit, Robin Stewart e Harry Wright dei Giant Swan), sia della tradizione indie rock e folk (Ira Kaplan, Georgia Hubley e James McNew dei Yo La Tengo, Marisa Anderson). Tra i tanti, anche alcuni studenti del corso “Sound As Music” che M.C. Schmidt ha tenuto durante l’ultimo anno di esistenza del San Francisco Art Institute, a cui il disco è dedicato.
Ci troviamo dinnanzi ad un lavoro di collage organico e al contempo impossibile da concepire, un lavoro di sovrastrutture disumane, capace di miscelare sapientemente il pensiero di Edgar Varese alla sperimentazione di John Cage, la house minimale di Chicago e vampate world music, il tutto sotto il segno inimitabile dell’elettronica matmosiana ed elementi inusitati persino da queste parti. È stata lasciata libertà assoluta, a parte il ritmo, ognuno con un suo distinto sistema di riferimento (dall’elettronica più oltranzista all’easy listening più cheesy, passando per il kraut, l’electro, il country, la psichedelia, tra spoken sintetici e field recordings, e chi ne ha più ne metta), ognuno realizzato senza rapporto con gli altri, ma che prende forma e senso se cucito insieme agli altri in una lunghissima sciarpa patchwork astrattamente concrète, multicolore, multimaterica e multilivello.
I Matmos definiscono l’album al pari di un viaggio in treno: esattamente come il viaggiatore di lunghe tratte vede il paesaggio cambiare di continuo, così accadrà all’ascoltatore, che finirà però stremato dai cambiamenti repentini e dalle ripetizioni folli ivi presenti. Il consiglio è quello di ascoltarlo un poco per volta. Forse la giusta collocazione sarebbe quella di una sala multimediale, con nessun tipo di accezione negativa per la scelta!!!
No responses yet