CALEB LANDRY JONES: “The Mother Stone”Caleb Landry Jones è uno dei volti più noti del nuovo cinema americano, conosciuto per i suoi ruoli in importanti serie tv e film. Caleb ha partecipato tra gli altri a “Get Out”, “Twin Peaks: The Return”, “Three Billboards Outside Ebbing”, “Missouri” e “The Dead Don’t Die”.

”The Mother Stone” è nato dopo l’incontro di Landry Jones con il regista e musicista Jim Jarmusch, con cui aveva collaborato per il film “The Dead Don’t Die”. Jones racconta: ‘Invece di parlargli ho pensato di scrivere una canzone che gli facesse capire chi sono’. ‘La maggior parte di questo accade nei sogni – dice Caleb Landry Jones del suo debutto discografico – Parlo più dei sogni che della realtà. Oppure parlo di entrambi e non sarete sicuro cosa è cosa’. L’esordio di Caleb si muove tra irreale e reale, tra allucinazioni a occhi aperti e cenni biografici della vita dell’artista, tutto con uno stile elegante e ricco di orchestrazioni pop.

Sicuramente un album così non te lo aspetteresti da uno che è essenzialmente un attore, e come esordio discografico oltretutto. Un lavoro pieno di orchestrazioni, che non si fa scrupolo ad usare arrangiamenti densi, ricchi e estremamente colorati. Sembra quasi una suite in quindici parti che si muove tra tratti autobiografici e allucinazioni, un viaggio tra il barocco e la glam-psichedelia. Forse in un’epoca diversa da questa, una tale raccolta avrebbe fatto gridare al capolavoro, in ragione di una esuberanza creativa che pesca sia nell’immaginario di Frank Zappa che dei Beatles, con un gusto estremo alla Van Dyke Parks e un amore per il taglia e cuci stile Todd Rundgren.

Ci sono buone ragioni per apprezzare questo estenuante progetto discografico: si può evocare la stravaganza glam alla David Bowie/T Rex, la funambolica poetica di Syd Barrett, perfino Alexander Skip Spence. Ma nonostante una produzione curatissima e una progettazione degli elementi orchestrali abbastanza interessante, “The Mother Stone” alla fine si riduce a un mero esercizio di stile. A volte spuntano alcune idee capaci di reggersi in piedi da sole: la psichedelica ballata alla Pink Floyd “For The Longest Time”, la più moderata teatralità di “I Dig Your Dog” e l’ottimo garage-rock di “All I Am In You/The Big Worm”, segnali di una schizofrenia creativa che rischia di essere apprezzata solo a livello concettuale, anche perché ci sarebbero da sopportare alcuni brani di una brevità che fa rima con inutilità quali “The Great I Am”, “No Where’s Where Nothing’s Died”.

In definitiva può incuriosire, ma non potrebbe resistere all’usura del tempo, anche se è difficile che passi inosservato!!!


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