Nel mercato di oggi sparire dalla scena per sei anni equivale ad un suicidio commerciale. E’ pero quello che è successo a Pecknold e compagni. Nonostante il lungo silenzio il terzo album delle Foxes non mostra sostanziali mutamenti, ed anzi inizia da dove finiva il precedente. C’è una ricerca maniacale di trame musicali, ora impalpabili ora di epica ridondanza, venendo meno però a quella scrittura più diretta che era caratteristica del loro primo disco.
Un esempio paradigmatico di quanto appena sostenuto può essere il singolo dell’album, della durata di nove minuti dal titolo ‘Third of May / Ōdaigahara’, una lunga ballata che inizia in modo lirico, con la voce al centro della struttura e termina con una coda strumentale che sembra quasi un altro pezzo. Tutto il disco è permeato da melodie complesse che richiamano le influenze della band, dai cori westcoastiani alle radici folk ed etniche mischiate ad un suono che si è fatto più classico, quasi cameristico. Un po’ di sorprese arrivano nella seconda parte dell’opera, chitarre elettriche e pure qualche riff (‘Mearcstapa’), un dolce piano posto in apertura di ‘On Another Ocean (January / June)’. In definitiva un disco che necessita di svariati ascolti, ma poi cresce con le sue melodie che mischiano idee e colori, stili ed armonie e che si chiude col brano omonimo, sei minuti abbondanti, in cui la letteratura va di pari passo con la melodia, il suono è trascinante, le voci splendide, i fiati fanno da base ad una ritmica complessa. Poi la canzone si ferma, quasi ripiegata su se stessa, per poi riprendersi e condurci fino alla fine del disco.
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