I Men non sono il tipo di band che si impantana nella mistica, ma è altrettanto improbabile che segnalino dove siano diretti.
Nell’arco di 10 anni sono andati in quasi tutte le direzioni che il rock indipendente e chitarristico possa condurti: il feroce post-hardcore di “Leave Home”, il rovente noise rock di “Open Your Heart”, il suono country di “New Moon” e il buon, vecchio rock ‘n’ roll in stile su “Tomorrow’s Hits”.
Anche se solo perché hanno fatto qualcosa una volta non significa necessariamente che non lo faranno mai più: i chiassosi e turbolenti spettacoli dal vivo del gruppo dimostrano che il grande equalizzatore tra tutte queste varie permutazioni è la distorsione e il volume. Anche la più tenera delle ballate in mano ai nostri può essere aggiornata ad una bar-band di indemoniati, e praticamente non si perde nulla nella traduzione.
“New York City”, il nono rilascio della formazione e il primo in tre anni – il loro più lungo intervallo tra i dischi fino ad oggi – imbottiglia quell’energia dal vivo libera e caotica in una delle distillazioni più dirette dell’essenza più pura di The Men. Se alzassero il riverbero e aggiungessero un po’ di rumore di folla, infatti, potrei essere convinto che si trattasse di un live. Il ritornello urlante e l’assolo stridulo del punk rock blues di 12 battute “God Bless the USA” è la materia di cui sono fatte le serate gloriose e ubriache, complete di livelli vocali composti fino al rosso.
Nel lavoro in questione i nostri sembrano non avere alcun interesse per i sintetizzatori o le chitarre acustiche che sono spuntate in modo più prominente nei loro precedenti LP. Questo è un album punk, punto e basta, dal piano di una nota, alla “I Wanna Be Your Dog”, che guida la traccia iniziale “Hard Livin'” al basso di una nota che dà il via a “Through the Night”.
Consentono a malapena una pausa tra le tracce che compongono il suo primo lato, e “Peace of Mind” inizia ancor prima che tu sapessi che “Hard Livin'” era finito. C’è una purezza di esecuzione qui che a volte sembra un ritorno alle origini più rumorose e nodose del gruppo, una sorta di reset al loro stato naturale di baldoria stridula di chitarra. È facile capire perché di tanto in tanto sentano il bisogno di uscire dalla loro comfort zone ricca di frastuono.
Mentre ci sono una manciata di brani che si rilassano in un ritmo meno frenetico, sono come i tagli più lenti dei dischi degli Stooges—nel contesto forniscono respiro, ma spesso si gonfiano con la stessa energia ed emozione dei lividi. “Round the Corner” è proprio un momento del genere, impettito con uno squallido blues in un latrato corale ancora molto rumoroso di ‘Non guardo più dietro l’angolo!’.
E il tocco di twang che evidenzia “Anyway I Found You” è più Gun Club che Byrds, ma i suoi riff di slide dolcemente piangenti offrono comunque l’illusione della tenerezza. L’emozione trabocca da ciascuna di queste dieci tracce, tuttavia, ed è probabile che nessuno venga via da “New York City” senza provare qualcosa: gioia, catarsi o solo l’innegabile voglia di urlare!!!
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