Ad essere sincero credevo che il buon Peter avesse appeso le chitarre al chiodo, invece eccolo qui con il suo dodicesimo album in discografia. Per questa sua nuova fatica Peter Bruntnell offre un songwriting lucido e profondamente contemplativo, melodicamente ricco e meravigliosamente prodotto. Se qualcuno riesce a catturare l’isolamento e l’introspezione provocati da mesi di blocco, il nostro può farlo. Suona la maggior parte degli strumenti con il prezioso contributo alla tastiera di Iain Sloan e Peter Linnane, che hanno anche progettato l’album, e del co-autore di lunga data Bill Ritchie. Due aggiunte degne di nota sono il sintetizzatore recentemente acquisito da Bruntnell e un bouzouki. Non temete, non è andato prog ma torna alla sua consueta analisi squallida della condizione umana con enfasi sul rimpianto, la morte e il desiderio. Ancora una volta ci chiediamo perché Peter Bruntnell, uno dei migliori esponenti dell’America da questa parte della staccionata, non è più ampiamente riconosciuto per il suo genio coerente?
Perde poco tempo nel mettere in grande effetto i suoi nuovi giocattoli. Un lontano bazouki echeggiante all’inizio di “Dandelion” lascia il posto alla sua familiare raschiatura mentre si rammarica, ‘coloro che pensavano che il tempo potesse essere comprato, stanno dormendo sottoterra’ che accompagna il gelido avvertimento: ‘Non siamo troppo giovani per morire’. Il tempo è opportunamente funereo.
Un synth dal suono più allegro inizia con “Lucifer Morning Star”, completato da una delicata pennata acustica che crea un’atmosfera pop più leggera per mascherare sentimenti di colpa più profondi. L’implacabilità di “Runaway Car” spinge a fuggire dagli infiniti errori del passato, ‘devi correre finché puoi/rifare sempre gli stessi errori’. Il synth vortica in un assolo di chitarra che suona molto CSNY.
L’album contiene due brani strumentali e una cover. Uno scrittore dell’abilità di Peter non ha bisogno di riempire i suoi dischi perché non c’è certamente una traccia superflua qui. Piuttosto gli strumentali offrono una pausa dalla desolazione dei testi, sia “The Antwerp Effect” che “Moon Committee” sono brevi interludi leggermente ipnotici. Tutti conoscono “Wild Mountain Thyme” a cui il cantautore dona una lucentezza malinconica. Il titolo dell’album appare in “Heart of Straw” dove ‘fiori e dolci saluti saranno inviati da alcuni/ per un vago ma necessario viaggio verso il sole’. Le pause tra i versi non fanno che amplificare gli strati di rimorso.
Bruntnell dà pieno sfogo al suo nuovo synth su “You’d Make A Good Widow” con un’introduzione cosmica che renderebbe giustizia ad Hawkwind. Da quella fioritura emerge una resa più tipica dell’Americana dell’autore, riflessiva e molto oscura. “Merrion” è un altro superbo esempio del suo mestiere. Di nuovo, c’è una minaccia di fondo, non verso qualcuno in particolare ma più autocritica. Strati e armonie orchestrali conferiscono a “Dharma Liar” una qualità da inno, mentre “Waiting For Clive” è il nadir dell’album, non in termini di qualità ma di umore. La chiusura di questa gemma di un disco è “Mutha”, la cui linea di pianoforte più gentile suggerisce tempi più felici a venire o è un pio desiderio?
Peter Bruntnell è un cantautore estremamente dotato, sarebbe troppo sperare che, finalmente, questo lavoro possa portargli il tanto atteso riconoscimento che merita?
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